“Contro il catastrofismo” di C. Schinaia. Recensione di T. Romani

Ci sono scritture che nascono dal desiderio di riparare, di cucire lacerazioni simboliche, di trovare parole sufficientemente porose da contenere il trauma del presente. Scritture che non pretendono di guarire, ma si lasciano attraversare dalle faglie, ne fanno dimora. Il libro di Cosimo Schinaia, Contro il catastrofismo, appartiene a questa genealogia discreta e necessaria: è un gesto lucido e generoso che tenta di dare forma al disorientamento affettivo e cognitivo che attraversa il nostro tempo, un tempo in cui la crisi climatica, il collasso culturale e l’iperproduzione di “contenuti” convivono con una coazione al disconoscimento sistemico. Dove il trauma, più che evento, è struttura; e dove la cura non può che essere una pratica collettiva di dis-identificazione dal noto.
Schinaia non cede né al catastrofismo paralizzante né a una nostalgia regressiva. Muovendosi con rigore e grazia tra riferimenti psicoanalitici classici e aperture verso saperi altri — che non fanno da ornamento, ma da perturbazione — delinea i contorni di una speranza “costruttiva”, intesa non come escatologia positiva ma come forza immaginativa capace di accompagnare la trasformazione, senza però illudersi di neutralizzarne la complessità, senza cedere alla tentazione dell’armonia. Freud, Bion, Ogden, Bloch e tanti altri: le voci evocate nel testo compongono un’architettura leggera e accogliente, che trattiene e fa respirare. Una casa temporanea, una capanna simbolica, mai una fortezza.
Chissà se una capanna, poi… come quella della scena finale del film Melancholia, che ospita Justine, Claire e Leo, il piccolo nipote, in attesa che un gigantesco pianeta blu, figura del fuori assoluto, si schianti distruggendo la Terra. Se non una via di fuga, almeno un’uscita.
Eppure, è proprio in questo equilibrio — elegante, commovente, umanista — che può aprirsi anche una zona cieca. Perché viene da chiedersi: è davvero ancora possibile “costruire” la speranza? E quale speranza, per chi, in che corpo, su quale terra, con quale memoria? Non tutte le soggettività possono permettersi lo stesso accesso all’immaginario del futuro. Non tutti i corpi sono ascoltati quando tremano. E non tutte le terre sono sfondo neutro: molte sono già sfruttate, scartate, avvelenate, ontologicamente colonizzate.
Il rischio, forse, è che la speranza proposta da Schinaia possa sembrare, a tratti, ancora troppo universale, ancora troppo affidata a una simbolizzazione pacificata, quando invece il presente ci chiede di pensare a partire dalla crepa, dalla ferita, dal rifiuto come materia prima di nuove alleanze.
Ciò che ci serve, infatti, non è una simbolizzazione sobria, rassicurante, ma un pensiero che risenta del collasso, che ne porti le cicatrici. Un pensiero posizionato, attraversato, capace di nominare con lucidità il problema, senza ritrarsi di fronte alla violenza sistemica che lo costituisce. Vedremo perché.
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